Sono giornalista pubblicista e mi occupo di ricerca storica, con particolare interesse per la cultura e le tradizioni della Maremma. Laureata in Scienze Politiche e in Storia Moderna, ho completato il corso quadriennale dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e proseguo gli studi teologici. Comunicatrice ambientale dal 1998, ho partecipato alla pubblicazione di guide turistiche della provincia di Grosseto. Collaboro con il mensile Maremma Magazine, un periodico di informazioni turistiche e culturali, e dirigo Val d' Orcia Terra d’eccellenza, una rivista che si occupa di arte, cultura e benessere nella valle senese patrimonio dell’UNESCO. Ho curato i testi dell’opuscolo informativo -Un Ministero per l'Ambiente- del Ministero dell'Ambiente.

I Butteri di Maremma, tra storia e mito, realtà e folklore

foto di Giorgio Carletti
Un modo per vederli all’opera? Gli spettacoli di Equinus alla Fattoria ‘Il Marruchetone’ di Roselle. Ma i butteri esistono davvero? C’è chi ne dubita e pensa che siano solo un mito ormai fin troppo banale e scontato. In realtà, anche se oggi non se ne vedono molti in giro, se non in qualche occasione folkloristica, quella del buttero è stata ed è per la Maremma una figura importante – e non solo per i risvolti turistici oggi quanto mai lampanti – ma perché tale figura si lega a doppio filo con l’humus (anche culturale) di questa nostra terra.

Il verde intenso dei boschi, i colori vivaci dei campi, le colline che digradano dolcemente verso il mare azzurro: tutto questo e tanto altro ancora è la Maremma grossetana, ricca di tradizioni e di misteri. In questa terra baciata dal sole e scelta come dimora definitiva dal popolo etrusco comparve, nel XVIII secolo, una forma di allevamento prevalentemente improntato all’utilizzo dei grandi spazi aperti, dove i branchi di bovini e cavalli, tenuti allo stato brado, venivano custoditi dai butteri. Se si ripercorre la loro storia si capisce perché siano una testimonianza così importante della Maremma. Quella del buttero era una vita difficile e faticosa che lo costringeva a subire le ingiurie del tempo e le difficoltà ambientali lungo tutto l’arco dell’anno, fatto di lunghe giornate in sella al cavallo per accudire la mandria, unica fonte di sussistenza. Le necessità dettate da un così particolare lavoro svilupparono ed affinarono una serie di tecniche indispensabili per trattare animali selvaggi e che ben presto si trasformarono in arte e poi in una vera e propria cultura. Insieme a questo nuovo mestiere, che divenne col tempo uno stile di vita, si affermò e si consolidò l’immagine, ormai mitizzata, del buttero maremmano, vero e incontrastato re delle grandi pianure. “Il bestiame è il gran capitale di Maremma, non va mai toccato…”. Questa “sentenza” fu emessa da Pietro Leopoldo di Lorena in occasione della visita compiuta tra il 1770 e il 1771 nei vasti territori maremmani, che da poco, per suo esplicito desiderio, erano stati sottratti al dominio senese per divenire autonomi col nome di Provincia Inferiore di Siena. Le parole del Granduca ci dicono il vero. Nel periodo di cui si parla, come nei secoli precedenti, gli animali rappresentavano, e continuarono a rappresentare per molti anni ancora, una delle maggiori fonti di reddito nell’economia della Maremma, che si basava su un’agricoltura estensiva, essenzialmente cerealicola, e sullo sfruttamento dei pascoli. Questa forma alquanto primitiva di utilizzo del territorio era incentivata e giustificata dalla presenza massiccia del latifondo: vastissime proprietà pressoché prive di abitazioni, coltivate mediante manodopera stagionale, con investimenti praticamente nulli e ampie porzioni di terreno lasciate incolte. Poche le maestranze che lavoravano quotidianamente come stipendiati fissi all’interno delle grandi tenute. Tra queste i butteri, ai quali era affidato il “tesoro” della Maremma, ovvero il bestiame, allevato allo stato brado. Compito del buttero era quello di prendersi cura degli animali, non solo dei bovini ma anche dei cavalli, che servivano da mezzo di trasporto e da lavoro. Prima e importantissima operazione era dunque quella di catturare e domare i cavalli selvaggi. L’animale scelto e addestrato dal buttero diventava suo compagno inseparabile per tutta la vita. In sella al suo cavallo il buttero affrontava le lunghe giornate, dall’alba al tramonto, in ogni stagione dell’anno. Ma molte altre erano e sono le attività del buttero: dalla merca del bestiame, all’appallinatura (tecnica che permette di prendere alla lacciaia un giovane bovino e, fissata la fune al pallino della sella, di condurlo nel tondino), dallo sbrancamento (ovvero l'isolamento di un esemplare dal resto del gruppo), alla cattura ed atterramento “a lotta” del vitello, per arrivare ai giochi equestri, un tempo riservati alle occasioni importanti e che servivano a distrarsi, ma anche, a volte, a catturare l’attenzione di qualche bella fanciulla. Piano piano la “nobile arte” prese a tramandarsi come un segreto di famiglia e la figura del buttero fu inserita nella mitologia di questa terra, mentre la leggenda veniva alimentata dalla sua presenza costante, ma discreta nelle campagne: questi cavalieri solitari, che comparivano all’improvviso e di colpo si dileguavano nel fitto della macchia, dovevano colpire, e non poco, l’immaginario dei forestieri che vi si imbattevano, specialmente in inverno, quando si mostravano chiusi nei lunghi cappotti di panno spesso e ruvido, che nelle giornate di pioggia lasciava il posto all’incerata, l’ampio e avvolgente mantello di tessuto, pazientemente spalmato con olio di lino. E sempre “armati” di uncino, il lungo bastone, spesso di corniolo, indispensabile per compiere molte azioni quotidiane, come aprire i cancelli senza scendere da cavallo, o lavorare con i puledri selvaggi senza avvicinarsi troppo. Salvare la storica tradizione di questo mestiere, che ha rischiato di perdersi per i mutamenti intervenuti nell’economia di questi luoghi, è preciso interesse dell’intera collettività anche per i risvolti turistici che tale recupero della memoria presenta, essendo ormai quello dei butteri una sorta di mito che si lega a doppio filo con la terra di Maremma. Una terra in cui ancora oggi non mancano le aziende di una certa dimensione ed importanza – anche se per la verità sono sempre di meno – in cui il bestiame viene allevato allo stato brado, proprio come avveniva in passato, quando in molte fattorie la necessità di curare un ragguardevole numero di vacche maremmane “alla macchia”, offriva una sicura sistemazione a diversi lavoratori, autentici cow-boys nostrani, ovvero appunto i butteri. Questa ormai mitica figura di mandriano a cavallo non ha resistito ai grandi stravolgimenti del Novecento e ha cominciato a perdere di importanza negli anni ’50 del secolo scorso, quando l’avvento massiccio della meccanizzazione e il cambiamento delle esigenze del mercato, hanno decretato la scomparsa, nella maggior parte delle aziende, delle grandi mandrie, e di conseguenza, una forte diminuzione dell’impiego dei butteri. L’amore dimostrato da più generazioni per la terra maremmana, con le sue leggi e i suoi ritmi, e una grande sensibilità per la storia e la cultura del luogo, hanno fatto sì che comunque il mito perdurasse nel tempo, anche attraverso rappresentazioni folkloristiche (come quella di Equinus che riportiamo qui sotto) tese a dare risalto alla più genuina tradizione della Maremma: quella che trae origine dalla nobile arte dei butteri, i quali nel frattempo avevano iniziato a godere di uno status sociale più elevato di quello di molti altri lavoratori delle fattorie: il salario era maggiore, grazie all’alta specializzazione richiesta per lo svolgimento delle loro mansioni, e inoltre, soprattutto nelle aziende più grandi, si poteva ambire a divenire un vero “personaggio”. Infatti, dal momento che molte attività, come la marchiatura del bestiame, erano svolte alla presenza dei proprietari, del fattore e di un vasto “pubblico”, il mostrarsi abili nel tiro con la lacciaia o nell’atterramento di un vitello, poteva rendere davvero famosi. Per quelli che lavoravano in realtà più modeste il compenso poteva essere molto poco appetibile, e c’è chi ha raccontato di aver ricevuto in pagamento una bella coppia di colombi, da “sfruttare” a piacere vendendo i frutti delle future covate. Per tutti, comunque, non si trattava mai di una vita facile: il lavoro si svolgeva ogni giorno, in ogni stagione, dall’alba al tramonto, senza orari né giorni di riposo. L’alimentazione era frugale, e si doveva cavalcare ore e ore, anche sotto la canicola o contro le sferzate del vento. Parlavamo prima dell’abbigliamento, divenuto col tempo tipico; insomma una sorta di… “divisa” del buttero. La giacca e i pantaloni di fustagno, o di tela nella stagione più calda, erano robusti per resistere ai continui sfregamenti a cui erano sottoposti. Avevano l’importante funzione di proteggere il buttero, che di frequente si avventurava nel folto della macchia, dove il rischio di essere ferito dalle spine dei rovi era davvero alto, ma erano certo molto utili anche per limitare i “contatti” con le zanzare durante i passaggi in palude. In inverno gli abiti da lavoro erano arricchiti da un pesante e ruvido cappottone, di proporzioni molto ampie, tanto da essere utilizzato come un mantello, e qualche volta appena ingentilito da un prezioso colletto di velluto o di pelliccia. Un altro capo tipico del guardaroba del buttero è l’incerata, realizzata con uno spesso tessuto di cotone, che con molta pazienza e abilità, durante le lunghe veglie nelle serate invernali, veniva intriso di olio di lino, che rendeva la trama impermeabile e conferiva alla cappa un caratteristico colore giallo paglierino. Col tempo e soprattutto con le periodiche “spalmature” l’incerata assumeva una sfumatura più intensa e dorata. I cosciali avevano anch’essi una funzione protettiva dal freddo e dall’umidità, ed erano realizzati per lo più in pelle di capra. Immancabile il cappello, un accessorio che in realtà nei secoli addietro era irrinunciabile per chiunque, indipendentemente dalla classe sociale e dall’attività svolta. Quello del buttero aveva larghe falde, per una ulteriore, duplice protezione dall’aggressione dei raggi solari e della vegetazione spinosa. Strumento tipico del buttero è l’uncino, un lungo bastone, ricavato da rami che il buttero stesso lavora “a fuoco”, per ripulirli dalla corteccia e sagomarli, rendendoli il più dritti possibile. Prezioso alleato del cavaliere, l’uncino è detto il “terzo braccio” del buttero, il quale lo impiega in numerose occasioni, sia per evitare il contatto troppo ravvicinato con animali non ancora domati e quindi imprevedibili nei movimenti, sia per limitare la necessità di scendere da cavallo. Non c’era un corso da seguire per fare il buttero: i figli imparavano dai padri e i giovani dai vecchi. Il mestiere si acquisiva facendo e osservando, poi l’esperienza acuiva la prontezza e la capacità. Così l’arte veniva man mano codificata in regole non scritte e il prezioso bagaglio di conoscenza finiva per diventare un vero patrimonio di cultura e tradizione, tramandatosi intatto fino ai nostri giorni, anche se ormai per i cambiamenti intervenuti nel corso del tempo, cui si accennava prima, le aziende in cui tale figura ancora sopravvive sono rimaste ormai veramente poche…La vecchia Maremma in scena al Marruchetone. E a proposito di butteri, dopo il bel successo della scorsa estate sono ripartite le esibizioni targate Equinus tendenti a valorizzare talune peculiarità di questa nostra terra e a promuoverne l’essenza, in chiave fortemente turistica. L’idea è quella di mettere in risalto lo spaccato forse più tradizionale del territorio di Maremma (vale a dire la natura incontaminata, i cavalli allo stato brado, le vacche dalle lunghe corna e i Butteri), facendone anzi un motivo di attrazione per i turisti d’estate e per i residenti, in questo particolare periodo dell’anno. 


Pubblicato su Maremma Magazine
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