Sono giornalista pubblicista e mi occupo di ricerca storica, con particolare interesse per la cultura e le tradizioni della Maremma. Laureata in Scienze Politiche e in Storia Moderna, ho completato il corso quadriennale dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e proseguo gli studi teologici. Comunicatrice ambientale dal 1998, ho partecipato alla pubblicazione di guide turistiche della provincia di Grosseto. Collaboro con il mensile Maremma Magazine, un periodico di informazioni turistiche e culturali, e dirigo Val d' Orcia Terra d’eccellenza, una rivista che si occupa di arte, cultura e benessere nella valle senese patrimonio dell’UNESCO. Ho curato i testi dell’opuscolo informativo -Un Ministero per l'Ambiente- del Ministero dell'Ambiente.

4 novembre 1966, l’alluvione a Grosseto


“L’Ombrone… è un fiume molto largo e rapido, porta molta terra, fa piene altissime e inaspettate, che spesso allagano tutti i contorni…”.
Eccolo il “vicino e potente fiume Ombrone”, il fiume che si tiene fuori dalla città, quasi sdegnoso, che tutti sanno che c’è, ma non si vede, e si indovina, passando, al di là della vegetazione lussureggiante che incornicia il suo corso. Bisogna cercarlo, il fiume, andarlo a trovare, come un vecchio signore scontroso con il quale, ogni tanto, fa piacere parlare. Giusto un accenno di timidezza di fronte al suo fare austero, poi la sua dolcezza e il fascino ti catturano e non vorresti mai più andar via, e ti volti a guardarlo ancora, prima che scompaia nel verde.
Ma un giorno il grande vecchio lasciò da parte il suo orgoglio e venne lui a trovare Grosseto, così la mattina del 4 novembre 1966 tutti poterono vedere il fiume scorrere per la città. Non fu una visita di cortesia, ma un’invasione, un atto di guerra vera, una violenza e un incubo per coloro che la subirono.
Era già successo molte volte, l’ultima giusto una ventina di anni prima, il 2 novembre 1944. Allora l’alluvione aveva colpito una città già provata e distrutta dai bombardamenti, dei quali in qualche modo completò crudelmente l’opera.
In quell’occasione gli abitanti di Grosseto, prostrati, ma non sconfitti, sollevarono subito la testa e si dedicarono con tenacia alla ricostruzione della loro città e della loro vita. Nei due decenni che seguirono la guerra, la Maremma si era scrollata di dosso molte pesanti zavorre del suo passato, aiutata anche dalla più favorevole congiuntura economica, e, seppur faticosamente, aveva cominciato a sperimentare una nuova sensazione di tranquillità.
Nel 1966 Grosseto era un posto per molti aspetti diverso, che ormai lasciava vedere senza pudore le grandi possibilità di sviluppo del suo territorio. Un sogno che sembrava sul punto di realizzarsi e che fu bruscamente interrotto, come l’ultimo sonno di quella mattinata di festa, dall’irruzione della densa fanghiglia che schiaffeggiò con violenza la città. L’impatto con le strutture fu devastante: l’ondata spazzò via tutto ciò che incontrava, spezzando ponti, sommergendo le colture, trascinando con sé ogni cosa.
E la Maremma compì un balzo indietro nel giro di poche ore. L’agricoltura, come ebbe a scrivere “Il Telegrafo”, era tornata indietro di cento anni.
E anche il paesaggio: il colpo d’occhio offerto dalla Maremma, da Castiglione della Pescaia a Follonica, da Alberese a Orbetello, fino a Capalbio riportava davvero ai secoli precedenti: un unico, grande lago desolato e silenzioso che si estendeva fino all’orizzonte.
Nemmeno in quell’occasione, però, i grossetani si persero d’animo più del necessario: in fin dei conti per Grosseto e la Maremma si trattava “soltanto” di ingaggiare un’altra guerra contro la natura, l’ennesima, sebbene la più drammatica e la più inaspettata.
Considerando l’irruenza dell’alluvione e la sorpresa per gli abitanti, i danni alle persone furono limitati, anche se i momenti di angoscia non risparmiarono nessuno.
Diverse persone rimasero più o meno leggermente ferite, soprattutto per cadute, dato che il terreno rimase a lungo scivoloso per il fango, che continuò a impiastricciare le strade, dopo che le acque si furono ritirate.
Solo una persona trovò la morte e fu una morte esemplare e in certo modo spettacolare nel suo tragico svolgimento. La vittima fu infatti il buttero Santi Guadalti, che lavorava alla fattoria “Acquisti” dei conti Guicciardini. In un gesto di estrema dedizione, mentre l’ondata di piena stava avanzando, si gettò a cavallo tra i flutti per salvare la mandria, chiusa nel recinto, e venne travolto. Il suo corpo fu trovato dieci giorni dopo, in un canale della fattoria.
A lieto fine la brutta avventura occorsa a un medico che, proprio la mattina di quel tragico venerdì, decise di recarsi a Grosseto con la propria auto in compagnia della moglie e del figlio piccolo. In prossimità di una casa colonica la sua macchina fu investita in pieno dall’acqua e fu impossibile raggiungere un luogo sicuro, ammesso che ne esistessero, in quel frangente. Solo il tempo di porgere il bambino al proprietario della casa colonica, che provvidenzialmente riuscì ad avvicinarsi e a trarlo in salvo, e poi i due genitori restarono immersi nell’acqua gelida, aggrappati a un piccolo olivo, per quattordici ore, dalle dieci del mattino fino alla mezzanotte, quando furono recuperati, non senza difficoltà, da un trattore e condotti in un altro podere per la notte. Una scena da incubo, per fortuna finita bene.
Un’altra testimonianza, non meno drammatica per quanto incruenta, è quella di Isaia Vitali, un collaboratore de “Il Telegrafo” che, come ricorda il bel volume intitolato ”I giorni del fango”, di Claudio e Giacomo Bottinelli, fu il solo quotidiano locale rimasto a documentare l’alluvione di Grosseto, dato che la redazione de “La Nazione” di Firenze rimase sott’acqua.
Il Vitali, svegliato da un ripetuto bussare alla porta, sente dalla voce della moglie  che “la gente ha paura del fiume”. Stordito e incredulo si affaccia alla finestra da cui un’altra voce, quella metallica di un altoparlante, invita a salire ai piani superiori. Era il Pucci, che passava in velocità inseguito dalla piena che stava montando.
Confuso, ma con il conforto e l’aiuto di parenti e condomini, cerca di portare in salvo ciò che può: alcuni libri, della biancheria e poco altro.
Appena il tempo di salire ai piani alti e già l’acqua copre inesorabilmente tutto, senza pietà. E dopo, oltre alla sorpresa di essere salvo, il rammarico di non avere avuto qualche minuto in più per salvare qualche altro pezzetto di vita.
Quello di portarsi via qualcosa, un ricordo, un oggetto di uso quotidiano, è  un gesto istintivo e nel panico generale, nella concitazione del momento, ci fu addirittura chi cercò di mettere in salvo dei vasi di fiori.
Ma poi quasi tutti fuggirono dalle case solo con ciò che avevano addosso.
Per la Maremma la storia ricominciò dal suo “anno zero” e parvero tornare d’attualità fatti che sembravano ormai relegati alla cronaca del passato, come gli episodi di sciacallaggio nei locali abbandonati in tutta fretta: chi ruba un tavolo di fòrmica e una sedia, chi si avventa sugli elettrodomestici, tutti incuranti dell’ordine ben preciso di “sparare a vista” ricevuto da carabinieri e polizia, che tuttavia si limitarono a compiere diversi arresti.
Approfittando della mancanza dei più importanti generi di prima necessità, altri individui si dedicarono al mercato nero, che è poi un'altra forma di sciacallaggio, un’attività sporca, che “sa di guerra”.
Non mancarono, del resto, anche episodi di onestà, persone che consegnarono gioielli ed altri oggetti rinvenuti in mezzo al fango.
E tanti, tanti furono coloro che si prestarono senza chiedere nulla, per dare una mano a spalare la melma, o per distribuire cibo e vestiario. Volontari giunsero da Orbetello, Livorno, Piombino, Roma. Erano giovani, soprattutto, a centinaia, che come a Firenze, anche se con minor clamore, non risparmiarono energie e fatica. Del resto, lo ricorda Bianciardi, commentando la calamità del ‘44, “la piena dell’Ombrone ci faceva rammentare che Grosseto, anche lei, aveva i suoi libri da perdere, i suoi cosiddetti «tesori bibliografici» da salvaguardare”, una materia cara all’ex direttore della “Chelliana” che, pur con un’ombra di pentimento nel cuore per non essere stato presente a Grosseto in nessuna delle due grandi alluvioni, afferma con orgoglio: “stavolta però a ripescare i libri dal fango c’è andato, con i suoi compagni di scuola, il mio figliolo grande”.
La città era stravolta, come la vita delle persone, ma per ironia della sorte l’aspetto esteriore non mostrava il vero volto della devastazione, lasciando all’interno, quasi per vergogna o delicatezza, tutti segni dello sfacelo. Il fango si era appropriato di tutto, le merci dei magazzini, fradice e inutilizzabili, erano perdute; perdute anche le case, gli animali, il raccolto dei campi; perduto il sonno: nessun turno di riposo per i militari della base aerea, con i preziosi elicotteri, né per i carabinieri, la polizia e i vigili del fuoco, tutti impegnati senza sosta e con ogni mezzo disponibile a portare soccorso.
Ma fu solamente quando l’acqua cominciò a defluire che si riuscì a comprendere la reale gravità dei danni, e con lo schiarirsi del cielo vennero alla luce anche le polemiche. La più pressante, tra le domande che tutti cominciarono a porsi, era: questa tragedia poteva essere evitata?
Nei giorni precedenti infatti la pioggia aveva flagellato la Maremma, fitta, insistente, e già la sera del 3 novembre il fiume si era riversato in golena. Molti si erano accorti che qualcosa non andava, che la situazione era più grave del solito. Eppure nessuno dette l’allarme, fino al mattino, Quando l’argine ruppe, nella zona del Berrettino, non restò che un ultimo disperato tentativo, così due auto dei carabinieri e quella “mitica” del Pucci percorsero tutta la città, invitando la popolazione a mettersi in salvo, ma senza avere paura.   
Altre contestazioni furono suscitate dalla disparità di trattamento, da parte dei mezzi di comunicazione, delle due alluvioni che avevano colpito contemporaneamente Grosseto e Firenze, divenute loro malgrado oggetti del contendere. In una lunga lettera intitolata ”Il lutto di Grosseto non si addice alla tv” e pubblicata da “Il Telegrafo”, Beppe Bottai inveisce contro la legge del più forte che vige anche nelle sciagure, e in questo caso Firenze, con i suoi capolavori famosi nel mondo, fece indubbiamente la parte dell’asso pigliatutto: microfoni e telecamere puntati e l’attenzione del mondo per il disastro provocato dall’Arno, mentre il sindaco di Grosseto doveva accontentarsi di “due generosissimi minuti” per spiegare il dramma della sua città... Il  rammarico è forte, come la rabbia: “Forse, l’economia generale dell’Italia sta mutando volto,…, se le preoccupazioni di un orafo che ha perso il negozio sono così amplificate dai teleschermi dalle mille eco, mentre la disperazione di centinaia di coloni maremmani che, in una notte sola, hanno perso casa, stalla, granaio (il che significa aver perduto la speranza stessa nella vita) non meritano un solo cenno, una sola attenzione, un misero attimo di solidarietà”.
Accanto alle tante, troppe cose serie, altre muovono al sorriso, e ci voleva, riportando alla realtà della vita che, seppur con fatica, riprende o meglio continua il suo corso. Così appare quasi una provocazione invitare all’urgente acquisto di “olio combustibile speciale per riscaldamento” molte persone che difficilmente avrebbero potuto far ritorno alle proprie case prima di qualche mese; e di sicuro pochi avranno provato disappunto nel sapere che alla Sala Eden “a causa del disastro che si è abbattuto sulla città, la serata con l’Equipe 84… è stata rinviata” a data da definire.
Ora, a distanza di quattro decenni, un interrogativo resta a turbare la mente: potrebbe succedere di nuovo?
Certo è che quando, meno di due anni fa, le abbondanti piogge provocarono una spettacolare esondazione del fiume, parecchi ebbero paura. Oggi infatti le case sono state costruite ben oltre il limite osato 40 anni orsono e molte sorgono a poche decine di metri dall’argine, pure risistemato e rafforzato, dell’Ombrone.
Che, per il momento, continua a scorrere placido e indifferente, compiaciuto delle sue linee sinuose. 

Pubblicato su Maremma Magazine
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