Sono giornalista pubblicista e mi occupo di ricerca storica, con particolare interesse per la cultura e le tradizioni della Maremma. Laureata in Scienze Politiche e in Storia Moderna, ho completato il corso quadriennale dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e proseguo gli studi teologici. Comunicatrice ambientale dal 1998, ho partecipato alla pubblicazione di guide turistiche della provincia di Grosseto. Collaboro con il mensile Maremma Magazine, un periodico di informazioni turistiche e culturali, e dirigo Val d' Orcia Terra d’eccellenza, una rivista che si occupa di arte, cultura e benessere nella valle senese patrimonio dell’UNESCO. Ho curato i testi dell’opuscolo informativo -Un Ministero per l'Ambiente- del Ministero dell'Ambiente.

Il Brigantaggio e la Maremma, un’epopea tra storia e leggenda

  di Maria Grazia Lenni
Tiburzi, ma non solo, tra i protagonisti di una stagione di scorrerie. 
È stato un fenomeno decisamente importante, entrato per certi versi nella leggenda, quello del brigantaggio nella Maremma tosco-laziale. Molti i motivi che ne determinarono la diffusione nel 19esimo secolo fino alla definitiva estirpazione agli inizi di quello successivo.

Il fenomeno del brigantaggio, che nacque nel XVIII secolo nella Maremma tosco-laziale, ebbe il periodo di massima espansione dopo l’Unità d’Italia, quando la pur desiderata formazione di uno stato unitario provocò una violenta rottura degli equilibri preesistenti, accentuando le già difficili condizioni di vita di molti individui. La necessità di stabilire leggi uniformi per tutto il territorio del Regno si scontrò, infatti, con le diverse realtà delle singole regioni, che mal si adattarono al rapido quanto innaturale mutamento. A differenza della situazione verificatasi nell’Italia meridionale, dove il brigantaggio, estremamente violento, fu debellato nel giro di pochi anni grazie all’impiego massiccio di forze di polizia da parte del governo nazionale, nel grossetano questo fenomeno fu meno chiassoso e si infiltrò lentamente nel tessuto sociale, rimanendovi molto più a lungo. La diffusione del brigantaggio trovò terreno fertile nell’area maremmana, penalizzata da un permanente stato di emergenza dovuto: al persistente dissesto idrogeologico (a cui la pur massiccia opera di risanamento iniziata sotto il Granduca non aveva posto fine), alla disperazione derivante dall’incapacità di resistere agli attacchi periodici delle febbri e infine alla diffusa povertà delle masse bracciantili, schiacciate dall’indifferenza dei grandi latifondisti e ora ulteriormente gravate dall’aumento delle tasse sul pane e sul sale, tra i primi e più impopolari provvedimenti che il governo unitario prese all’indomani della sua costituzione. Le difficili condizioni materiali erano accentuate dall’infimo livello culturale della popolazione, che nella stragrande maggioranza era completamente analfabeta. L’istruzione era infatti riservata alle classi più abbienti e ritenuta inutile per coloro che erano comunque destinati a svolgere un’attività per niente intellettuale. Questo complesso insieme di fattori negativi rendeva facile il passaggio dal piccolo furto a reati via via più gravi, fino alla necessità di nascondersi per sfuggire alla cattura. L’ambiente geografico favorì non poco i fuggiaschi, che nelle folte macchie impenetrabili, isolate dal resto del mondo “civile” e poste in mezzo a plaghe pressoché disabitate, poterono trovare un luogo ideale per sfuggire alla cattura da parte delle forze dell’ordine. I pochi carabinieri delle compagnie dislocate nella provincia erano peraltro assolutamente insufficienti a coprire un territorio così vasto e insidioso e, malgrado il loro impegno fosse spinto spesso ai limiti dell’eroismo, mancavano di mezzi adatti a svolgere un’azione di controllo davvero efficace. Nonostante la penuria di forze alcuni di loro, rigorosi nel loro attaccamento al dovere, contribuirono in maniera determinante a ottenere risultati insperati. Esemplare, come figura di uomo e di carabiniere, il Capitano Michele Giuseppe Giacheri, “pregevole perla di gentiluomo e di soldato”, la cui “opera illuminata, attivissima e zelante” portò alla cattura del Tiburzi. L’impulso più notevole all’affermazione del brigantaggio nella Maremma grossetana, per quanto appaia paradossale, fu dato dalla immigrazione di delinquenti dal vicino Stato della Chiesa. Il brigantaggio in Maremma, quindi, fu essenzialmente un fenomeno di… importazione, se è vero, come è vero, che i briganti, sia quelli divenuti leggendari, sia quelli “senza storia”, hanno in massima parte origini laziali, a partire da Tiburzi, il più famigerato e famoso di loro. Se la maremma toscana piangeva, infatti, quella laziale certo non rideva, schiacciata anch’essa da problemi economici e sociali analoghi a quelli del grossetano e in più sottoposta alle ingiustizie di un regime ben poco lungimirante e liberale, come era quello dello Stato Pontificio. Il suo confine con il Granducato di Toscana, segnato dal fiume Fiora, non era troppo difficile da superare e di fatto era continuamente violato da ogni sorta di malfattori in fuga dalle responsabilità e dalle forze di polizia. Il brigantaggio, comunque, non avrebbe potuto attecchire cosi saldamente se non avesse potuto disporre dell’appoggio più o meno volontario, ma di certo consistente e costante, dei grandi latifondisti. Furono loro infatti che foraggiarono con laute somme di denaro quegli individui che si proponevano come “protettori” delle terre e del bestiame, esposte altrimenti a incendi e saccheggi, e li “taglieggiavano favolosamente”. Le responsabilità dei signori latifondisti nei confronti del brigantaggio furono messe in luce nel “processone” di Viterbo, del 1893, nel quale i rappresentanti di ricche e potenti famiglie, proprietarie di immense estensioni di terreni in Maremma, furono accusati di essere dei “manutengoli” e di appoggiare fin troppo calorosamente le gesta criminose di quei disperati. Al possibile “eccesso di difesa” da parte dei possidenti fa da contraltare un altro eccesso, compiuto dai briganti che, secondo l’interpretazione storica del fenomeno fornita da alcuni studiosi, non furono dei rivoluzionari, ma dei “riformatori”. Essi, infatti non mettevano in discussione l’istituto della proprietà privata, né obiettavano sulla divisione sociale tra padroni e servi, ma aspiravano a uno sfruttamento meno oppressivo delle classi subalterne. E nella loro sete di giustizia sociale si trasformarono da vittime in carnefici. Resta il fatto che negli ultimi decenni del XIX secolo la presenza infestante dei briganti, con le loro scorribande sanguinose, sconvolgeva la vita della brava gente, tanto che quegli anni furono poi definiti “il periodo del terrore” per i maremmani. Un periodo che terminò all’alba del nuovo secolo, quando nel giugno del 1900 Luciano Fioravanti, luogotenente di Tiburzi, ucciso qualche anno prima nel 1896, fu, come molti suoi pari, morto ammazzato da una “mano amica”, tradito per la stessa sete di denaro che aveva segnato la sua vita. A poco più di cento anni dalla scomparsa dell’ultimo rappresentante di quel complesso fenomeno che fu il brigantaggio, i banditi che imperversavano per la Maremma con le violente rapine, le esose estorsioni e i più efferati omicidi non ci appaiono più così feroci e “brigante” è ormai solo un epiteto affettuoso, con cui indicare le piccole marachelle di qualche ragazzino vivace o l’atteggiamento disinvolto di qualche esperto nell’antica arte di arrangiarsi. 


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