Sono giornalista pubblicista e mi occupo di ricerca storica, con particolare interesse per la cultura e le tradizioni della Maremma. Laureata in Scienze Politiche e in Storia Moderna, ho completato il corso quadriennale dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e proseguo gli studi teologici. Comunicatrice ambientale dal 1998, ho partecipato alla pubblicazione di guide turistiche della provincia di Grosseto. Collaboro con il mensile Maremma Magazine, un periodico di informazioni turistiche e culturali, e dirigo Val d' Orcia Terra d’eccellenza, una rivista che si occupa di arte, cultura e benessere nella valle senese patrimonio dell’UNESCO. Ho curato i testi dell’opuscolo informativo -Un Ministero per l'Ambiente- del Ministero dell'Ambiente.

Il bandito Tiburzi

 di Maria Grazia Lenni
Piccolo, vecchio e poco saldo in gambe: così Domenico Tiburzi, il famigerato re della macchia, si presentò alla vista dei carabinieri, quando il 24 ottobre 1896, in una casa colonica delle Forane, presso Capalbio, ebbe fine l’epoca della sua esistenza e iniziò quella della sua leggenda. Il prof. Lombroso, noto psichiatra e fondatore dell’antropologia criminale, si disse “maravigliato che i caratteri principali della fisionomia del Tiburzi presentassero piuttosto i segni dell’uomo onesto che quelli del delinquente”. Sarà che c’è “poca differenza tra il tipo del birbante e quello dell’uomo normale”, sarà che il suo aspetto esteriore non ricordava quello di un “brigante fatto”, certo è che la figura del Tiburzi non presentava “caratteristica alcuna degli istinti sanguinari che egli possedeva”. Eppure quest’uomo per circa trent’anni tenne in scacco le polizie di molti stati, muovendosi con abilità attraverso sorvegliatissimi confini e spadroneggiando nel suo vasto regno che si estendeva tra i circondari di Grosseto, Viterbo e Roma, in quella Maremma che fu a un tempo teatro delle sue violenze e riparo sicuro alle sue fughe. Il dibattito su Tiburzi, lui vivo, fu forte: le sue scorribande mettevano in ridicolo la forza pubblica e rintuzzavano le polemiche sull’inerzia governativa nell’annosa questione del brigantaggio in Maremma. La sua ribellione nei confronti dei ricchi proprietari e dei loro impietosi fattori, del resto, trovava d’accordo la povera gente, vittima di palesi ingiustizie sociali, e l’opinione pubblica si schierò dalla sua parte: per tutti era già il simbolo di un popolo oppresso e del suo tentativo di rinascita. Dopo la sua scomparsa si disse che era vissuto e morto da eroe e la sua storia si arricchì di aneddoti, alcuni dei quali probabilmente mai verificatisi, e fu ingigantita la portata di azioni che lui, per sua natura schivo e diffidente, poco propenso alle chiacchiere e alle confidenze, difficilmente avrebbe raccontato. La sua vita e la sua morte divennero patrimonio comune, argomento di veglie e narrazioni di cantastorie e il suo mito trovò nutrimento in quel misto di ammirazione e timore reverenziale che sempre accompagnò il brigantaggio in Maremma. Sicuramente per la legge era un assassino: diciassette gli omicidi che gli furono attribuiti. Per uno di questi, commesso a scopo di furto, fu condannato al carcere “perpetuo”, ma il 1° giugno 1872 riuscì a evadere dal penitenziario di Tarquinia in cui era rinchiuso e da allora si diede alla macchia con la quale, scherzava, avrebbe presto celebrato le nozze d’argento. Mancò di poco l’appuntamento. Dopo un lungo periodo di latitanza, in cui si diffuse la voce di una sua fuga all’estero, nel corso del 1896 il Tiburzi fu avvistato più di una volta nella impenetrabile foresta del Lamone, suo incontrastato dominio, e si scoprì in seguito che a luglio si trovava a Roselle per fare i bagni, mentre in agosto il suo luogotenente Fioravanti si era recato a Grosseto per procurargli del chinino, segno inequivocabile della sua presenza in zona. Si dice anzi che insieme ai suoi “colleghi” stesse preparando una “riunione di vertice” per progettare un’impresa delittuosa di grande portata, approfittando “della situazione poverissima di forze in cui si trovavano le nostre stazioni dei carabinieri”. Ma la esiguità delle forze dell’ordine fu rafforzata dalle confidenze di un informatore, ansioso di riscuotere la corposa taglia che pendeva sulla testa del “livellatore”, e così due colpi di fucile esplosi in una piovosa notte autunnale, decretarono la chiusura di un conto aperto da troppo tempo. Le pur minuziose analisi effettuate dai medici non riuscirono a stabilire se Tiburzi fosse buono o cattivo, paladino della giustizia o volgare assassino. Forse il suo piccolo corpo faceva fatica a contenere la sua doppia anima, forse per questo popolo e preti non si trovarono d’accordo sul luogo della sua sepoltura, forse per questo le sue spoglie vennero tumulate sul confine del cimitero di Capalbio: metà sul terreno consacrato, metà fuori dalle mura del camposanto. Chi fosse in realtà “Domenichino” nessuno lo sa. Perfino allora, a dirla tutta, pochi furono quelli che avevano potuto guardarlo in faccia, tanto è vero che quando fu resa nota la sua uccisione i cronisti dell’epoca si trincerarono dietro un dubbioso “pare”, dato che “il temuto brigante non era conosciuto affatto dagli agenti della forza pubblica che da trent’anni e più lo cercavano senza averlo visto mai”.

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