Sono giornalista pubblicista e mi occupo di ricerca storica, con particolare interesse per la cultura e le tradizioni della Maremma. Laureata in Scienze Politiche e in Storia Moderna, ho completato il corso quadriennale dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e proseguo gli studi teologici. Comunicatrice ambientale dal 1998, ho partecipato alla pubblicazione di guide turistiche della provincia di Grosseto. Collaboro con il mensile Maremma Magazine, un periodico di informazioni turistiche e culturali, e dirigo Val d' Orcia Terra d’eccellenza, una rivista che si occupa di arte, cultura e benessere nella valle senese patrimonio dell’UNESCO. Ho curato i testi dell’opuscolo informativo -Un Ministero per l'Ambiente- del Ministero dell'Ambiente.

Torciata di San Giuseppe a Pitigliano


Il primo spettacolo magico che si presenta davanti agli occhi di chi si reca alla Torciata di San Giusepppe, che si svolge a Pitigliano il 19 di marzo, è… Pitigliano: un paese incantato, a cui, per la festa, basta aggiungere pochi, ma preziosi elementi: la notte, del fuoco, qualche decina di torciatori e un pupazzo di canne. Poi lasciamo alitare su tutto il soffio delicato della primavera che sta per arrivare. Per chi volesse analizzare la Torciata di San Giuseppe , non sarà difficile ravvisare in essa tutti gli elementi religiosi e pagani che vi si fondono: la ricorrenza del santo; il fuoco rituale, l’elemento che provoca distruzione e morte, ma è anche simbolo di purificazione e rinascita; il periodo in cui si svolge, cioè quello del “cambio di stagione”, dall’inverno alla primavera, che è un po’ come dire dalla stagione della morte, con il freddo e la scarsa luce naturale, a quella della vita, con il sole che illumina sempre più la terra e promette germogli e boccioli, a loro volta portatori di frutti e di vita. Non è un caso che la processione prenda le mosse proprio dalle vie cave, i percorsi che gli etruschi tagliavano nel tufo e che erano ritenuti sacri poiché collegavano la necropoli con altri luoghi religiosi, vie di collegamento, non solo ideale, tra la città dei vivi e quella dei morti. Così il risalire dalla profondità delle vie cave alla sommità del paese svettante sul costone di tufo è la chiara risalita dall’oscurità della morte, quella della natura durante l’inverno, allo splendore della vita che torna a nascere ad ogni ritorno della bella stagione. Così questa festa di San Giuseppe, o di primavera, è, come del resto è stato nei secoli per ogni celebrazione precristiana legata al culto delle divinità dei campi, solo una amabile scusa per ribadire il forte legame di appartenenza dell’uomo con la terra e con i suoi elementi, con le stagioni e i loro frutti e con il bisogno, antico come l’uomo, di ringraziare, ma anche ingraziarsi, quel qualcuno, lassù, che non tutti chiamano Dio, ma che per tutti è simbolo di una ineliminabile predisposizione al trascendente, che è insita nell’uomo quanto lo è la vita stessa. L’attuale Torciata ha le sue origini nelle feste patronali che i vari rioni del paese celebravano tra la fine dell’ottocento e l’inizio del secolo scorso. In quell’occasione i giovani del rione di Capisotto organizzavano una sorta di veglia in onore di San Giuseppe, la cui immagine sacra era conservata in una nicchia nella via cava a lui intitolata. La cerimonia consisteva nell’accendere numerose torce, formate da fasci di canne legate. Al termine della giornata, sul far della sera, le torce ancora accese venivano portate in paese, dove venivano raccolte in un unico, grande falò e lasciate consumare dal fuoco. Questo rito, opportunamente modificato ed esteso, appartiene oggi all’intera comunità pitiglianese, ma diventa una cosa personale anche per chiunque vi assista, da qualunque latitudine arrivi, perché questa manifestazione tocca direttamente il cuore. Anche se da più parti si trovano pubblicate notizie secondo le quali “La tradizionale Torciata di San Giuseppe... ha origini perdute nella notte dei tempi”, probabilmente non si può parlare di festa antica, ma questo rende se è possibile ancora più affascinante questa grande festa popolare. Quello che di antico c’è, anzi di ancestrale, è infatti il bisogno dell’uomo di sentirsi unito alle forze della natura e parte egli stesso di questo spontaneo fluire del tempo e delle stagioni, che ripropongono con la loro incessante alternanza, il dilemma della vita e della morte. La festa si svolge su due fronti: il centro storico e il Cavone di San Giuseppe. Già dal giorno precedente la ricorrenza vera e propria, infatti, il paese si prepara ad accogliere gli ospiti come in ogni festa tradizionale che si rispetti, tra le musiche della banda e la ritualità laica dei cibi e delle bevande offerti in abbondanza, in particolare i dolci tipici di San Giuseppe, le frittelle di riso, e l’ottimo vino locale. Si organizzano poi concerti e manifestazioni sportive e teatrali. Il giorno 19 al mattino viene officiata la Santa Messa, poi si prosegue con i festeggiamenti fino al pomeriggio quando, sempre in centro, si svolge il corteo storico, che vede i figuranti sfilare per i vicoli del cuore antico del paese indossando ricchi costumi, accompagnati dalle esibizioni degli sbandieratori, per confluire nella piazza del Comune. Li si trova l’Invernacciu, come  viene chiamato nel colorito e particolarissimo dialetto pitiglianese. Si tratta di un grande “mostro”, alto quattro o cinque metri, formato da un busto e due lunghe braccia ricadenti fino a terra, come a formare una sorta di treppiedi, sormontato da un testone, con tanto di barba e capelli e lineamenti ” umani” realizzati ogni volta in maniera diversa, a seconda della fantasia che ispira il costruttore. Il pupazzo che raffigura l’inverno, è costruito con canne, rami, foglie, ortaggi e tralci di vite, materiali di facile reperimento ma di grande effetto, se abilmente intrecciati e mescolati con cura, come sa fare chi ogni anno, giorni prima della festa, si accinge a creare il fantoccio. Mentre nel paese si attende e si formano gruppi di persone lungo il percorso della processione, nel Cavone di San Giuseppe, che oggi si chiama via Cava del Gradone, si prepara la seconda e più corposa parte della festa. Qui si trovano infatti i giovani paesani, vestiti con una corta tunica di tela di sacco con cappuccio, fermata da una cordicella stretta in vita, e gambali, anch’essi di tela. Sono i cosiddetti “torciatori”, che hanno il compito di dare inizio alla torciata vera e propria: così, verso il tramonto, appena avvisati da tre squilli di tromba, prendono le torce, lunghi fasci di canne legate strettamente tra loro e incendiate ad un’estremità e, caricandosele sulle spalle, si avviano in una lenta e suggestiva processione seguendo il percorso delle antiche vie etrusche, lungo la vallata del fiume Meleta e il corso della via Salciata fino alla piazza Garibaldi, preceduti dai portantini con la statua del Santo, che sfila protetta dal suo baldacchino rosso. Queste fiaccole spandono nel buio la loro luce tremolante e creano un effetto magico, irreale, suggerito dall’aspetto già fiabesco di Pitigliano, poggiato come per un incantesimo sulle sue guglie tufacee, che affiorano da inimmaginabili profondità del terreno, e accentuato dal buio totale in cui si trova il paese, per lo spegnimento dell’illuminazione artificiale. All’arrivo del corteo il Vescovo benedice la piccola statua di San Giuseppe e tutte le persone presenti. Intanto i  “torciatori” formano un grande cerchio intorno all’Invernacciu e, usando i loro fasci infuocati come enormi fiammiferi, li depongono ai piedi del colosso di canne, incendiandolo. E mentre l’odioso, freddo e “morto” inverno si disperde nell’aria, i torciatori tenendosi allacciati danno vita a un vorticoso girotondo, preparandosi ad accogliere una primavera che sarà portatrice di vita nuova e nuovi frutti. Poi, quando l’ultima fiammella si sarà ormai spenta e anche i più resistenti tiratardi si saranno consegnati a un buon sonno ristoratore, il silenzio e la notte governeranno ancora per un po’ il tempo, fino a un altro giorno pieno di luce. Un rito, una promessa, un augurio per tutti.

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