Sono giornalista pubblicista e mi occupo di ricerca storica, con particolare interesse per la cultura e le tradizioni della Maremma. Laureata in Scienze Politiche e in Storia Moderna, ho completato il corso quadriennale dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e proseguo gli studi teologici. Comunicatrice ambientale dal 1998, ho partecipato alla pubblicazione di guide turistiche della provincia di Grosseto. Collaboro con il mensile Maremma Magazine, un periodico di informazioni turistiche e culturali, e dirigo Val d' Orcia Terra d’eccellenza, una rivista che si occupa di arte, cultura e benessere nella valle senese patrimonio dell’UNESCO. Ho curato i testi dell’opuscolo informativo -Un Ministero per l'Ambiente- del Ministero dell'Ambiente.

Transumanza in Maremma


“Settembre, andiamo. E' tempo di migrare…/ E vanno pel tratturo antico al piano,/ quasi per un erbal fiume silente,/su le vestigia degli antichi padri”. In questi pochi versi di Gabriele D’Annunzio, tratti dalla famosa poesia “I Pastori”, è racchiuso tutto il senso di quel fenomeno antico e complesso a cui viene dato il nome di «transumanza». Il trasferimento stagionale del bestiame, composto in prevalenza da pecore, ma comprendente anche asini, cavalli e bovini, in terreni più ospitali è una pratica molto antica, già in uso nel periodo etrusco, che si protrasse poi lungo il volgere dei secoli, terminando, almeno per ciò che riguarda quello in larga scala, solo con l’appoderamento seguito alla riforma fondiaria avvenuta alla  metà degli anni cinquanta del novecento. Tipico di molte zone d’Italia, in Toscana questo spostamento di animali e persone ha assunto nel tempo proporzioni quasi bibliche, giungendo ad interessare in alcuni periodi centinaia di migliaia di capi di bestiame, che per sfuggire ai rigori e alla scarsezza di erbaggi dell’inverno montano, venivano portati in zone più temperate e ricche di pascoli verdi. Mèta dei pastori transumanti toscani, che erano per lo più originari del Casentino, ma anche di quelli provenienti da Marche, Emilia Romagna, Umbria e, in parte, dall’Abruzzo, erano le sconfinate pianure della Maremma grossetana. Questo lento esodo iniziava, per gli abitanti delle zone appenniniche che portavano le loro greggi a svernare in Maremma, con le prime avvisaglie dell’autunno, tra settembre e ottobre, e si protraeva fino a primavera inoltrata. In estate, infatti, il clima torrido e siccitoso trasformava la piana in una assetata distesa di polvere e paglia, certamente poco adatta ad accogliere e sfamare le pecore e i loro piccoli. Il viaggio si svolgeva a piedi, lungo i tratturi, percorsi predefiniti, sempre quelli di anno in anno, che nel volgere di una o due settimane conducevano alla “terra promessa”. Durante il lungo e faticoso cammino i pastori trovavano assistenza presso le famiglie contadine che abitavano nelle case rurali sparse nel territorio e che offrivano loro del cibo e un po’ di riposo in cambio di buon latte e dei saporiti prodotti caseari. Ma a fronte di questa forma di solidarietà molto diffusa nel tessuto sociale delle campagne, un’altra realtà minacciava pesantemente la loro sicurezza, infatti le vie di comunicazione erano molto insicure per la presenza di sbandati, e di gruppi di briganti ben organizzati, che battevano il territorio in cerca di facili bottini. Oltre che con il costante pericolo della delinquenza i pastori dovevano misurarsi anche con i problemi  della vita quotidiana, dal momento che la loro posizione sociale era quasi sempre decisamente critica, e non migliorava di tanto neppure all’arrivo, visto che il lavoro che li aspettava era molto duro e si svolgeva, per di più, in condizioni di vita estremamente precarie, con l’utilizzo di alloggi di fortuna e in condizioni igieniche non proprio ideali. La transumanza coinvolgeva anche un’altra categoria di lavoranti , ovvero quelli che, afflitti da uno stato quasi cronico di disoccupazione, si spostavano al seguito delle carovane dei pastori, in cerca di un lavoro che per diversi mesi avrebbe garantito il mantenimento delle proprie famiglie, sempre al limite della sopravvivenza. Nel brano “Vanno in Maremma”, inserito nella raccolta “Le veglie di Neri”, Renato Fucini racconta scene di (povera) vita quotidiana dedicando una pagina bellissima al tema della transumanza. Le parole del “disgraziato” che con  gli abiti frusti  trascina sé stesso e la sua famiglia verso Talamone, sono significative: “ Non c'é mica poi tanto, sapete. Di qui passerà poco le cento miglia. Si va su, adagio adagio, coll'aiuto di Dio, e quest'altra settimana, alla più lunga sabato, s'arriva. La strada, non dubitare, la conosco bene; sono trentacinque anni che la faccio; la sorte m'ha sempre assistito, e per grazia del cielo eccomi qui”. Per quanto riguarda la moglie  e i figli, “più volentieri li avrei fatti restare tutti a casa; ma non avevo da lasciargli nulla, signore mio, nulla! nemmanco un po' di farina per isvernare”. E per il viaggio “si va alla carità di questi contadini, e, per dirla giusta, pochi fin qui me l'hanno ricusata la capanna per dormire e un tozzerello di pane”. L’ingresso ai pascoli maremmani avveniva in tre punti  ben precisi, detti “capi”, che erano Montemassi, Paganico e Cinigiano. La transumanza, infatti, era un vero e proprio “affare di stato”, e si svolgeva in maniera necessariamente ordinata e con regole che nel corso del tempo si sono sempre più raffinate e specializzate, al fine di disciplinare un flusso molto intenso che, per le sue caratteristiche peculiari, rischiava di provocare il caos nei territori che attraversava. Lo Statuto della Dogana dei Paschi maremmani, il primo dei quali fu stilato dal governo senese ai primi del XV secolo, stabiliva i confini delle “dogane”, cioè i terreni comuni che potevano essere utilizzati per far pascolare le pecore, e tutte le formalità burocratiche da espletare per ottenere le  autorizzazioni e per effettuare i relativi pagamenti. Il primo passo di questo complicato sistema di “fida” era il ritiro del  “permesso di transumanza” (bulletta) che doveva essere ritirato dal pastore all’apposito Ufficio delle Dogane, dietro corresponsione di una somma per ogni animale. Il bestiame era sottoposto più volte alla conta (calla) che veniva ripetuta alla partenza al fine di valutare l’incremento delle greggi con le nuove nascite. I diversi branchi di pecore, detti “masseria”, erano affidati al  “vergaio”, il capo di tutti i pastori transumanti, nonché personalmente responsabile delle greggi e del personale addetto alla loro custodia, nonché dei butteri che facevano parte della spedizione. L’incarico del vergaio si protraeva per tutto il periodo del soggiorno, durante il quale restava l’unico punto di riferimento. Giunti sul posto si procedeva alla costruzione delle capanne (vergherie), dalla tipica forma circolare, e ai recinti per gli animali. In realtà questa immensa migrazione, una vera benedizione per  lo stato senese che sfruttava i “Paschi” maremmani incassando cifre davvero consistenti, non era del tutto indolore per la Maremma, perché, per quanto fosse prevista una sorta di “cintura” erbosa a protezione dei campi, il calpestio di molte migliaia di animali nelle radure provocava comunque danni molto seri all’agricoltura. Sul finire del XVIII secolo, con l’affermarsi del latifondo, incoraggiato dalla politica agraria dei granduchi lorenesi che incentivarono la privatizzazione dei terreni demaniali, le grandi estensioni di terra coltivate per lo più a cereali cominceranno a richiamare frotte di lavoranti stagionali, costituite per lo più da braccianti agricoli. Ancora una volta era la povertà a stanare dalle loro case persone provenienti non solo dalla Toscana o dalle regioni confinanti, ma da tutta Italia, con il miraggio di un lavoro sicuro. Lo scotto da pagare, anche in questo caso, fu altissimo, sia in termini di disagio personale che di più vaste conseguenze sociali. Con l’immigrazione bracciantile si aprì in Maremma un altro capitolo di storia, fatto ancora di fatiche indicibili, malattie debilitanti, problemi sociali e di ordine pubblico. Ma questo è, per l’appunto, un altro capitolo della grande storia maremmana.

Pubblicato su Maremma Magazine
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