Sono giornalista pubblicista e mi occupo di ricerca storica, con particolare interesse per la cultura e le tradizioni della Maremma. Laureata in Scienze Politiche e in Storia Moderna, ho completato il corso quadriennale dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e proseguo gli studi teologici. Comunicatrice ambientale dal 1998, ho partecipato alla pubblicazione di guide turistiche della provincia di Grosseto. Collaboro con il mensile Maremma Magazine, un periodico di informazioni turistiche e culturali, e dirigo Val d' Orcia Terra d’eccellenza, una rivista che si occupa di arte, cultura e benessere nella valle senese patrimonio dell’UNESCO. Ho curato i testi dell’opuscolo informativo -Un Ministero per l'Ambiente- del Ministero dell'Ambiente.

Il campo di concentramento di Roccatederighi, tra storia e memoria


Mezz’ora di silenzio assoluto, di occhi sgranati; mezz’ora per sapere, per capire. Tanto è durata la proiezione del filmato “Roccatederighi campo di concentramento”, che ha aperto la serie delle iniziative legate a “La memoria della Shoah”, organizzata dall’ISGREC (Istituto Storico Grossetano per la Resistenza e l’Età Contemporanea) e dalla Provincia di Grosseto, in collaborazione con il Comune di Grosseto e con il patrocinio della Comunità Ebraica di Livorno.
Il documentario presentato in anteprima nazionale il 25 gennaio scorso, presso l’Aula Magna del Polo Universitario Grossetano, è stato realizzato dalla giornalista Rai Vera Paggi, nella convinzione che l’argomento trattato non appartenga all’area ristretta della storia locale, ma sia un episodio di storia italiana e che come tale debba essere reso noto attraverso il servizio pubblico.
Gli interventi dei relatori durante l’incontro di presentazione del documentario hanno messo in evidenza molti punti cruciali che stanno alla base di una ricerca di questo tipo. Innanzi tutto, e non poteva essere diversamente, la memoria, un concetto di cui, come ha sottolineato Adolfo Turbanti, presidente dell’ISGREC, si fa spesso un uso disinvolto.
Anche Severino Saccardi, consigliere regionale e membro della Commissione Cultura della Regione Toscana, lamenta un troppo flebile ricordo a fronte di una sovrabbondanza di retorica ed evidenzia il fatto che non c’è memoria dei grandi drammi che hanno segnato la storia europea degli ultimi decenni “di pace”, segnati da violenze, genocidi, deportazioni. La storia ha bisogno di rigore, di onestà intellettuale, e questo vale ancora di più  per quella recente, già difficile da analizzare con criteri pienamente oggettivi per via del coinvolgimento emotivo che provoca soprattutto in coloro che l’hanno vissuta.
Spesso invece viene alterata o usata in modo improprio per nascondere fatti che gettano ombre funeste su chi li ha compiuti, fino ad arrivare all’estremo di una sua “negazione”  come è avvenuto ultimamente a Teheran, dove senza pudore è stata falsificata una storia, ormai ampiamente documentata, senza considerazione e senza rispetto per coloro che portano ancora cicatrici dolorose impresse sulla pelle e nel cuore.
Proprio per limitare il rischio che tali aberrazioni si ripetano si rende necessaria una conoscenza diffusa dei fatti che hanno preceduto l’avvento della repubblica, coinvolgendo anche le giovani generazioni in un processo che aiuti a comprendere quali sono le nostre radici.
Viene da chiedersi, allora, perché per molti anni la storia riguardante il Seminario di Roccatederighi non sia stata resa nota.
Alcune risposte si trovano proprio nel filmato, in cui i protagonisti di allora don Pietro Fanciulli, Eugenia Servi, monsignor Franco Cencioni, Ariel Paggi, ispiratore della ricerca sul Seminario, sfilano composti, senza traccia di risentimenti, e rammentano quasi con delicatezza quell’esperienza, svelando il desiderio comune di non ricordare e di non parlare. Era una necessità di sopravvivenza, un tentativo di “limitare i danni”, provato dal fatto che perfino  il Seminario è rimasto intatto da allora e che le persone hanno rotto il silenzio solo per rispondere alle domande dei  ricercatori.
Lo ha ammesso anche lo stesso Franco Cencioni, allora giovane seminarista: “Quando siamo usciti da questo incubo non c’è stata una riflessione immediata”. E forse non poteva essere che così: non si trattava di coprire colpevolmente una verità scomoda per chi si era reso protagonista attivo di fatti sciagurati, ma di addolcire nell’oblio il dolore troppo grande di chi li aveva subiti. Troppo penoso poi, per chi era rimasto, considerare che per la loro salvezza altri avevano pagato con la vita.
Difficile dimenticare, difficile ricordare.
Leonardo Marras, sindaco di Roccastrada, coglie l’importanza di un simile spunto di riflessione per la comunità locale, protagonista suo malgrado di un episodio così tragico, un dramma che ha coinvolto e travolto tutti, a vario titolo, e accetta l’invito di rincontrarci tra un anno per la cerimonia di apposizione della lapide, auspicata da Saccardi, al seminario di Roccatederighi.
Luciana Rocchi, direttrice dell’ISGREC, annota la specificità di Grosseto, che installa  il campo di internamento in un locale della chiesa. E proprio sul comportamento della chiesa locale e in particolare del Vescovo di allora, Paolo Galeazzi, sono incentrate le discussioni che ora si propongono all’opinione pubblica.
Sul contratto di affitto tra Galeazzi e la provincia i giudizi sono discordi e da più parti viene rilevato come il Vescovo di Grosseto, del quale, in omaggio a una verità… storica, dobbiamo dire che è scomparso nel 1971 e non  nel ’64, è stato citato da esponenti di note famiglie ebree della zona con molta gratitudine per l’amicizia dimostrata loro.
Un altro punto nodale del sistema è il trattamento differenziato riservato agli ebrei,
trattati con disparità, a seconda della loro nazionalità: essere ebrei italiani era pur sempre diverso che essere ebrei stranieri.
Questi ultimi furono i più svantaggiati e i più deportati, perché estranei al tessuto sociale e quindi senza “aderenze”. Poche infatti sono le partenze verso i campi degli ebrei grossetani e molte quelle registrate tra gli stranieri presenti in zona.
Inquietanti le considerazioni sul motivo per cui molti, ebrei e non, furono arrestati, ovvero la delazione, un fenomeno che si è verificato anche in altre zone dell’Europa e che basta a sfatare il vecchio mito degli “italiani brava gente”: mentre molti, rischiando in prima persona, si prodigavano per aiutare e nascondere gli ebrei, altri, vicini di casa e “amici”, si prendevano invece l’impegno di segnalarne la presenza, in un intreccio di ideologia, poca, e di molti odi personali, di rivalse e invidie che hanno spesso motivato la scelta di denunciare.
Così, dopo aver perduto, con le leggi razziali, il diritto alla proprietà e il diritto al  lavoro, viene tolto anche quello fondamentale della libertà e poi della vita.
Dal 17 aprile, giorno della prima partenza per i campi, alla fine del funzionamento del campo il 9 giugno 1944, delle ottanta persone “ospitate” nella struttura della Diocesi, circa quaranta furono i deportati ai campi di sterminio.
Alcuni furono prosciolti dall’internamento, altri riuscirono a fuggire, aiutati dall’occhio chiuso di qualche guardia o dal comportamento dei carabinieri che, come testimonia Ariel Paggi, cercarono i fuggiaschi “per finta”, permettendo di fatto la loro precoce liberazione.
Edith Singer, adolescente internata a Roccatederighi, è letteralmente sparita nel nulla.

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